giovedì 14 luglio 2011

Riflessioni sul toponimo medievale Carieke

Da Kyrikos (Quirico) a Karieke (Cargeghe), un legame più che millenario

Giuseppe Ruiu


Spesso avendone un interesse diretto, ho riflettuto chiedendomi sull'origine del toponimo medievale Carieke alla base dell'attuale Cargeghe, paese dell'alto Logudoro in provincia di Sassari. Tale toponimo (nome di luogo) risulta essere la grafia più antica attestata poiché la prima menzione del villaggio è contenuta in una scheda databile ante 1063-1065 del Condaghe di San Pietro di Silki(1): 

CSPS 24. Parthitura. De seruis.
EGO prebiteru Petru Iscarpis, ki parthibi cun prebiteru Gauini Pithale a ffiios de Istefane de Nussas e de Maria de Funtana, ki furun de scu. Petru de Silki, e de scu. Petru de Carieke. A Justa, et a Bona, et at Elene, leuaitilos scu. Petru de Silki; et a Migali, et a Petronella et a Barbara, et a Petru leuaitilos scu. Petru de Carieke”(2).

Altri documenti storici come il condaghe di San Michele di Salvennor(3) (che ci è pervenuto non nell’originale pergamenaceo scritto in lingua sarda, ma in una traduzione castigliana risalente al 1599) ed altre fonti medievali, relative alla presenza nel logudoro dei marchesi Malaspina(4) (possessori della ex curatoria giudicale di Figulina - entro la quale ricadeva Cargeghe - dal 1323 al 1353), menzionano il villaggio con varie grafie che però risultano essere adattamenti e/o esiti del primigenio Carieke; dunque allo stato il toponimo della scheda del Silki rimane la grafia più antica accertata.

Studiosi quali lo storico ottocentesco Giovanni Spano, il ricercatore Josto Miglior(5) e il prof. Massimo Pittau(6), hanno avanzato possibili significati etimologici del toponimo in questione, attualmente in lingua sarda: Carzèghe, pronuncia locale: Casèghe.

Il canonico Spano, nel suo Vocabolario Sardo Geografico Patronimico ed Etimologico, senza indicare da quale radice provenga il nome di Cargeghe, scrive che tale parola deriva da KAR, città CHAG, città allegra, festiva”(7).

 Sul significato etimologico avanzato del canonico ploaghese Spano nutro alcune riserve poiché lo ritengo frutto di una interpretazione molto originale e “ottocentesca”, epoca nella quale molti studi scientifici tra i quali la linguistica erano ancora agli albori e dunque molto approssimativi… Detto questo senza nulla togliere agli studi del canonico che ebbe grandissimi meriti per avere dato corso e lustro alla cultura e storia patria della Sardegna.


In tempi più recenti, I. Miglior, partendo da una delle grafie più antiche del nome, “Carjèghe”, la assimila al termine che in logudorese indica la ciliegia: cariàsgia o cariasa. Cargeghe significherebbe, dunque, “sito ricco di ciliegi”(8).


Tale significato proposto dal medico di Jerzu Josto Miglior è stato approfondito dal prof. Pittau, una istituzione nel campo della linguistica sarda, che lo considera toponimo sardiano (ossia appartenente a quella lingua, o lingue, parlate in Sardegna prima dell’avvento del latino) sia per il suffisso -èk- ma anche perché accosta Carieke al fitonimo carièxa “ciliegio,-a” di origine pre-romana (sardiano-nuragica) come riconosce lo stesso linguista tedesco Wagner(9). Ad avvalorare tale interpretazione, la memoria storica della presenza nel territorio di Cargeghe di numerose piante di ciliegio fino ad epoche a noi recenti. Da quanto riportato non è difficile risalire all’evoluzione fonetica del toponimo dall’originario fino all’attuale:

Carieke, Carjeke, Cargeke, Cargeghe, Carzeghe.

Non nego che fino a qualche tempo fa questa interpretazione era per me esaustiva e soddisfacente, sia per la genialità interpretativa ma anche perché lega il toponimo in maniera indissolubile al territorio attraverso l’antica lingua sarda pre-romana ancora poco studiata ma più spesso poco considerata, e dunque ritenevo chiuso l’argomento.

Recentemente però, leggendo alcune fonti storiche, mi sono imbattuto in alcune varianti grafiche del nome greco-bizantino Kyrios (Quirico) patrono insieme alla madre Giulitta del paese, e tra esse alcune che si avvicinavano di molto al nostro toponimo Carieke. 

Nella mia mente si fece così spazio la considerazione che il nome di Cargeghe potesse originariamente derivare da quello greco-bizantino del suo patrono Quirico in un modo che di seguito spiegherò. In virtù di ciò decisi di approfondire l’argomento e vedere se la mia teoria potesse “reggere” sia dal punto di vista linguistico che sotto il profilo storico, poiché per una corretta indagine toponomastica, (la storia e il significato dei nomi di luogo) disciplina che appassiona non solo studiosi di ogni scienza ma anche semplici appassionati, occorre investigare più ambiti disciplinari quali ad esempio le fonti storico-documentali per individuare la versione grafica più antica possibile del toponimo da cui partire per poter di seguito analizzare la sua evoluzione fonetica ossia le mutazioni che il toponimo ha subito nel corso dei secoli fino ad arrivare a quello odierno; la pronuncia sia locale che della zona circostante, indispensabile per poter arrivare ad una forma comune del toponimo; il contesto storico-geografico del territorio, fondamentale anch’esso per avvalorare qualsiasi teoria. Con tale impostazione di metodo ritengo si possa evitare di cadere in interpretazioni suggestive e frettolose frutto dell’esigenza di attribuire ad ogni costo un significato al toponimo.

Quirico, secondo quanto precisano i linguisti, sarebbe la forma volgare di Ciriaco. Entrambi derivano da Kyrios (cioè signore, in greco) ed equivalgono nel significato al latino Dominicus. Ma, come già in greco quel nome è spesso scambiato con i simili Kirykos, Kerekou, Kerikou, Kerukou, Kurikou, Kuriacòs e Kuricòs, così in latino ha dato origine alle forme di Quiricus e anche a quelle di Cericus, Cyricus, Cyriacus, Cyrus e Syrus, giacché il suo culto fu diffusissimo in tutto l'Occidente. Molti sono i nomi che, importati da altri paesi, così come gli stessi nomi diffusi in paesi diversi, presentano varianti anche sensibili, dovute a deformazioni della lingua popolare o ad errori di trascrizione. La varietà delle forme assunte dal nome di Quirico è stata così grande che, come assicura il Réau (Hiconographie de l'art Chrétien) anche numerosi storici d'arte non hanno saputo riconoscerlo. 

Ecco le diverse forme finora da noi individuate, con cui viene indicato il nome di questo martire bambino: Quirico, è la forma consueta in Italia, dove troviamo, però, anche quelle di Quilico e di Chirico (nel nome di due Comuni: San Chirico Nuovo e San Chirico Rapàro); Quirico è presente anche in Spagna, dove peraltro si trovano anche le forme di Quirce e Quirse; in Portogallo, Querido; In Francia, ha dato origine a una vera babilonia di forme. La più diffusa è la lezione Cyr; così il Réau ed il Joanne (Dictionnaire géographique et administratif de la France). Ma Brunet, traduttore in francese della Leggenda aurea, lo chiama Quirique; Courajod, nelle sue lezioni a l'École du Louvre, Cyricus; Perate e Bertaux, ne L'histoire de l'art d'André Michel, parlano di Quiricus o Quiritius. Nessuno di loro tuttavia sembra dubitare che si tratti di saint Cyr, cioè il nostro san Quirico. Nella toponimia delle località, si trovano anche: Cire, Cirycus, Cyricus, Quirique, Quiricus o Quiritius e Sire; con altre variazioni come: Cerdre, Cergue, Cergues (Cher), Cierge, Ciergue, Ciers, Cirgues, Cirice, Cirq, Cric, Cricq, Cy, Cyriac, Cyrgues, Cyrice; Geyrac, Griède, Quiric, Serdre; ed altre varianti ancora come: Ceyrac, Ciergues, Cirgue, Circq, Cricq, Cyrice, Quirc. Altre forme, in paesi diversi: Quiricus e Cyrus in Germania e Inghilterra; Qìrqos in Etiopia”(10).

Da tutto ciò si evince che il nome Quirico ha dato corso ad una serie notevole di mutazioni grafiche (o ad errori di trascrizione) dovute alle varie lingue dei territori nei quali si radicava il culto del martire orientale. Sappiamo che anche in lingua sarda il nome Quirico ha dato corso ad alcune grafie rispettando così questa tendenza, abbiamo: Chìrigu, Quìrigu e Imbìricu (quest'ultimo presente in alcune schede del condaghe di San Pietro di Silki e relative ad edifici di culto dedicati a Sanctu Imbìricu). C’è da rilevare subito che nessuno di essi ricorda però il toponimo Carieke in analisi.

Potrebbe essere verosimile che il nome Carieke sia stato esemplato su quello greco-bizantino di Kyrikos/Kyriakos (e varianti) non già come un prestito diretto ma per calco, ossia traducendo il termine forestiero mediante materiale linguistico sardo, subendo nel corso del tempo un processo di corruzione grafica dall’originale: da KyRiKos a KaRieKe. L’esito possibile potrebbe essere il seguente:

Kyrios/Kyrikos, Kyriakos, Kyriake, Kariake, Karieke, Carieke.

Storicamente sappiamo che in Occidente il culto dei Martiri Quirico e Giulitta si diffuse nell’alto-Medioevo in particolare in Francia, Italia e Spagna. Il vescovo francese di Auxerre Sant’Amatore, o Amanzio, tornando da una visita ai Luoghi Santi trasportò le loro reliquie da Antiochia a Marsiglia, dove furono deposte nell'Abbazia di San Vittore. Amatore morì nel 418, e da quest'epoca cominciò forse la diffusione in Occidente dei culto dei due Santi Martiri. In Sardegna il loro culto è abbastanza diffuso, in particolare San Quirico si festeggia il 15 luglio, oltre che a Cargeghe, ad Ardauli, Norbello (insieme a Giulitta) e Ussaramanna. Il primo sabato d’agosto Luogosanto, il 24 agosto a Ardauli e il 22 settembre Buddusò.

A questo punto gioverebbe molto alla mia teoria se dicessi che la data più probabile del loro martirio fosse il 15 luglio del 304 d. C. sotto le famigerate persecuzioni cristiane dell’imperatore Diocleziano. Proprio in questa data – 15 luglio - il Martirologio Bizantino della chiesa ortodossa, festeggia il loro culto, in maniera differente rispetto a quella occidentale cattolico-romana che li celebra il 16 giugno.

Il Martirologio Romano e qualche altro autore pongono il martirio dei nostri Santi al 16 giugno, anziché al 15 di luglio. Questa differenza di data pare sia avvenuta molto tardi, e particolarmente dopo la pubblicazione del Catalogus Sanctorum di Pietro De' Natali (1^ ediz.: Vicentiae, a. 1493, cur. Antonio Vorle), in cui la festa dei SS. Quirico e Giulitta si legge appunto, e pare per la prima volta, al 16 di giugno. E appunto sotto tale data piacque poi ai calendaristi romani di porre nei Messali e Breviari i nomi di Cyrici et Julittae. Dall'altra parte, non solo i Menologi Greci pongono la festa di questi Santi al 15 di luglio - e con essi tutta la tradizione greca, confermata dalla Lettera di Teodoro - ma: anche nella tradizione occidentale latina, la si trova negli antichi calendari dei Frati Minori e negli altri riportati dallo Zaccaria nel suo Excursus litterarius e nella Biblioteca Rituale, dove nel Capitolare di un codice del sec. IX di Lugano così si legge: «Die XV mensis suprascripti (Julii) Natale S. Cyriaci» (qui si sa che Cyriaci è uguale a Cyrici). Con la tradizione greca si univa anticamente anche la Chiesa Napoletana, come risulta dal Calendario di marmo recentemente scoperto e conservato presso la Curia vescovile; a Napoli sorgevano tempo fa un Monastero ed una chiesa annessa, ad onore dei due Martiri dedicati. 

La stessa data del 15 luglio si trova nei Calendari Avellanensi del 1250 - 1260 - 1300 e 1400 circa; in quello Sanseverinense del 1450; nonché nei due Fabrianensi del 1350 e 1400 circa. Al 15 di luglio parimenti la pongono i Calendari greci e siriaci, il Sinassario, il Menologio Basiliano ed il Calendario Armeno. Infine, la data del 15 luglio è confermata anche dal Breviario dei Benedettini, usato da S. Romualdo (sec.X-XI), fondatore dei Monaci Camaldolesi, come risulta da un'antica , riportata dal Domenico Gasparri nelle sue: Memorie Storiche di Serra S. Quirico (Roma, 1883, pag. 171). Ed è perciò che nei luoghi dove il culto di S. Quirico fu importato dagli stessi Monaci Camaldolesi o Avellaniti, la festa di S. Quirico si è sempre celebrata al 15 di luglio, anche dopo la loro partenza. (…) Nelle Chiese d'Occidente, seguendo la compilazione dei calendari successivi al Martirologio Romano, la loro festa è prevalentemente celebrata il 16 giugno (talvolta il 13 giugno); meno frequentemente, soprattutto nelle località a più antica tradizione locale, il 15 ( o 16 o 17) Luglio. 

Come si è visto sopra, la data più probabile del loro martirio è tuttavia il 15 luglio, in cui la loro festa si celebra sia presso i Greci, che i Siro-Maroniti, i Copti, i Moscoviti, gli Armeni ed i Nestoriani. Anche tutta una classe di libri liturgici designa la celebrazione della loro festa nel 15 luglio, al pari dei Greci. I Bizantini onoravano Giulitta il 15 luglio e la commemorazione si faceva a Costantinopoli nella cappella di S. Michele”(11).

In ragione di ciò non è consequenziale che la celebrazione dei Martiri nella data del 15 luglio discenda direttamente da una tradizione religiosa greco-bizantina, ma comunque indica più in generale qualcosa di molto antico e radicato. Ed è proprio su questa antica tradizione che vorrei soffermarmi.

L’ubicazione del Carieke medievale è da ricercare nel sito campestre di Santu Pedru, dove era presente l’omonima chiesa (…). In epoca e per ragioni non meglio precisabili – entro comunque la seconda metà del XIV secolo -, avvenne il trasferimento nell’attuale sito, già sede di un precedente stanziamento nuragico e tardoromano, per quanto la coesistenza dei due centri demici siano concepibili, seppur per breve tempo, alla luce di quella situazione di distribuzione demografica peculiare del Medioevo, caratterizzata da una moltitudine di piccoli agglomerati o cortes, andati successivamente incontro ad accentramento d’abitato”(12).

Dunque il villaggio di Cargeghe per ragioni imprecisate verso la seconda metà del XIV° secolo dalla piana di Campomela si trasferì nell’attuale sito in posizione più elevata della precedente e dominante la predetta piana, dunque meglio difendibile (tale trasferimento potrebbe avere una spiegazione nella conflittualità tra i marchesi Malaspina, a cui Cargeghe era infeudato, e il nascente "Regnum Sardiniae et Corsicae" catalano-aragonese, ostilità sfociate in alcuni brevi conflitti bellici e successivamente nella guerra permanente tra il Regnum e il Giudicato di Arborea ultimo baluardo di indipendenza sarda). 

Oppure Cargeghe potrebbe essere stato caratterizzato da alcuni piccoli agglomerati, costituiti da un agglomerato principale più a valle (Santu Pedru) ed uno in posizione più elevata, nei pressi dell’attuale parrocchiale di San Quirico e Giulitta, e nel corso della seconda metà del XIV° quest’ultimo sito, sempre per ragioni non meglio precisate, abbia preso il sopravvento nei confronti di quello più a valle.

La chiesa parrocchiale di Cargeghe, con parte delle sue cappelle in stile gotico-catalano, intitolata ai martiri Quirico e Giulitta, allo stato attuale è frutto di alcuni rimaneggiamenti nel corso dei secoli (vedi il campanile riedificato in epoche recenti perché colpito da fulmini tra ottocento e novecento) e si dice edificata in un epoca compresa tra il XV° e il XVI° secolo d. C. (la direttrice dell'abside è orientata a est-nord-est facendo supporre una edificazione posteriore al XVI secolo), ubicata nella parte alta del paese dove è rilevata la frequentazione tardo-romana attestata da un sepolcreto ad enchytrismòs e da rinvenimenti dello Spano nel 1869, consistenti in anfore appuntate e giare piene d’ossa, nonché pietre coniche fisse al suolo in forma di sepolture da gigante(13). 

Area nella quale trovò collocazione il cimitero cinquecentesco (se nonpiù antico) di San Quirico che accolse nel 1652 i morti di peste - 332 circa - che falcidiarono e quasi estinsero il paese.

Tale datazione (XIV°-XV° sec.) lascerebbe spazio a una probabile promozione devozionale del culto dei martiri ai vicini monaci Camaldolesi del monastero della Santissima Trinità di Saccargia e del romitorio di Santa Maria de Contra (villaggio ormai estinto collegato a Cargeghe da un sentiero), anche se, come rilevato in altri contesti (come la celebre chiesa dedicata ai due santi Martiri di S. Quirico d'Orcia, del XII° secolo, rifatta su una precedente chiesa dell'VIII secolo), potrebbe essersi verificata una continuità cultuale da tempi remoti.

Proprio i Camaldolesi non furono estranei alla tendenza di insediarsi in luoghi nei quali si riscontrano tracce evidente di precedenti insediamenti bizantini, come ad Anela (ma altri esempi in Sardegna non mancano) dove i monaci nel 1163 entrarono in possesso della chiesa di San Giorgio di Aneletto edificata su un precedente fortilizio bizantino del VII secolo d. C. 

Nella stessa Norbello (come ricordato altro paese sardo che dedica la sua chiesa parrocchiale a Quirico e Giulitta) vi sono segni evidenti di insediamenti d’epoca bizantina.

Nel territorio di Cargeghe lascerebbe supporre una presenza bizantina labili tracce toponomastiche quali la località denominata Santu Simone, circa 300 metri a sud-est della chiesa di Santa Maria de Contra - Nel 1154 papa Anastasio IV conferma al monastero di Saccargia la protezione apostolica, con l’elenco di tutte le chiese dipendenti da esso tra cui Sanctae Mariae in Contra(14), la località denominata Santu Pedru - probabile sede della chiesa di Sanctu Petru de Carieke menzionata nel condaghe di SPS - circa 600 metri a nord-est della predetta S. M. de Contra(15), ma in particolare l'intitolazione di una chiesa rurale, citata nei Quinque Libri del paese ma di cui si è persa la memoria e l'ubicazione, al martire Procopio da Cesarea, santo militare venerato dalle armate bizantine.


Per concludere, il toponimo Carieke è attestato (scheda condaghe di San Pietro di Silki ante 1063-1065) già prima dell’insediamento dei Camaldolesi a Saccargia e a Contra, e in base alla mia interpretazione che lo vuole originatosi dal nome greco-bizantino del martire Quirico: Kyrikos, avanzo l’ipotesi - solo una congettura stante la mancanza di documentazione storica - che la devozione ai martiri originari dell’Asia minore sia giunta in questi luoghi nel corso dell’alto-medioevo promossa da monaci bizantini, e che nei secoli seguenti la loro devozione sia stata perpetuata attraverso i monaci camaldolesi.

***
Note

1) SANNA M., Carieke e in condaghes in età medievale, in: AAVV, Atti del Convegno Nazionale La Civiltà Giudicale in Sardegna nei Secoli XI-XIII: fonti e documenti scritti, 2001, pagg. 81/288.

2) BONAZZI G., Il condaghe di S. Pietro di Silki, traduzione, note e glossario a cura di Delogu I., Sassari, Dessì, 1997.

3) MANINCHEDDA P. e MURTAS A. (edizione critica a cura di), Il Condaghe di San Michele di Salvennor, Centro di studi filologici sardi/CUEC, 2003. Pag. 117, scheda 242, 9: menzionato con grafia: Cargeque.

4) SODDU A. (a cura di), I Malaspina e la Sardegna, documenti e testi dei secoli XII°–XIV°, Centro di studi filologici sardi/CUEC, 2005. Pag. 421: menzionato con grafia: Cargegi. Pag. 425: menzionato con grafia: Cargegua. Pag. 536: menzionato con grafia: Cargegui. Pag. 496: menzionato con grafia: Cargieche.

5) MIGLIOR J., I comuni della Sardegna, etimologia dei nomi, 1990.

6) PITTAU M., I nomi di paesi città regioni monti fiumi della Sardegna, 1997.

7) Estratto da: http://www.comune.cargeghe.it (sito internet del comune di Cargeghe).

8) Estratto da: http://www.comune.cargeghe.it

9) PITTAU M., op. cit.

10) Estratto da: http://sanquirico.net (sito internet nato da un'idea di padre Fausto, Rettore della chiesa di San Quirico e Santa Giulitta a Roma, del Dr. Luigi Ricagni e l'Associazione Proloco Sante Marie http://www.prolocosantemarie.it/).

11) Estratto da: http://sanquirico.net

12) SANNA M., op. cit., pag. 281.

13) SANNA M, op. cit., pag. 281.

14) USAI N., Gli affreschi romanici della Santissima Trinità di Saccargia (Codrongianos). Annali della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Cagliari, nuova serie XXVII, vol. LXIV, 2009.

15) DONAERA M. G., L'insediamento umano medievale nella Sardegna settentrionale: centri abbandonati della curatoria di Figulina, tesi di laurea in Materie Letterarie del Magistero di Sassari, A. A. 1982-1983.






martedì 11 gennaio 2011

L’emiro di Sardaniya Mugâhid al-Amiri, oltre la leggenda*

Giuseppe Ruiu


Indice

Introduzione;

L’origine di Mugâhid;

I regni delle Taifas;

Denia: alla corte di Mugâhid;

Le spedizioni in Sardegna;

La morte;

I figli;

Conclusioni;

Bibliografia;

Corredo fotografico.


Introduzione

Per chi avesse avuto modo di leggere qualsiasi testo, antico o moderno, che tratti di storia sarda, senza dubbio ricorderà che, nei capitoli riguardanti l’affacciarsi alla ribalta storica della Sardegna agli albori del basso medioevo - anno mille -, esso citerà senza dubbio la figura storica dell’emiro musulmano Mugâhid al-Amiri, personaggio sospeso tra storia e leggenda, nebuloso e controverso, vero accentratore di tutte le paure e fobie riguardanti il pericolo musulmano incombente sulle coste sarde in quelle epoche e oltre.

Nel presente lavoro desidero portare a conoscenza dei lettori questa figura così sovente citata ma mai realmente approfondita. Prova ne sia il fatto che altrettanto spesso gli si addossi l’epiteto di “pirata”, quando pirata non fu mai, se non corsaro, ma fu anche tanto altro!

Tale considerazione ritengo risenta della difficoltà, riscontrabile fino ad oggi, di avere un quadro chiaro e preciso dei rapporti – che sicuramente non furono solo conflittuali - intercorsi tra sardi e musulmani, arabi e berberi, in epoca medievale e della loro presenza in Sardegna.

Da poco però, grazie ad indagini archeologiche più specifiche e ad alcuni ritrovamenti sia materiali che di fonti letterarie, si inizia ad avere alcune conferme sui rapporti intercorsi tra questi popoli.

Ad esempio nota è la notizia - tratta da fonti arabe - che nella Sardegna dell’VIII secolo d.C., si pagasse la gizyah, il testatico, la tassa che pagavano cristiani, ebrei e zoroastriani sottomessi agli arabi, che in cambio beneficiavano della loro protezione: la dhimma. Altra interessante notizia (che apprendo dagli studi dello storico Giuseppe Contu) è che in Tunisia, nei pressi di Qairouan (Qayrawan), esisteva nel medioevo una colonia di Sardi cristiani stanziati nella località di Sardaniya (antico nome con il quale gli arabi indicavano la Sardegna, oggi Sardinia) e alleati dei Berberi Botr della tribù dei Nafzawa, il cui primo riferimento è stato rinvenuto in un'opera dello storico al-Bakri (1040-1094), secondo quanto riferisce lo storico arabo Ibn Khaldùn (1332-1406).

È curioso notare che questi berberi Botr fossero pastori transumanti sempre in cerca di pascoli e che Mugâhid stesso commerciasse con la città tunisina di Qairouan non lontano da Sardaniya.

L’origine di Mugâhid

Mugâhid ibn abd Allah al-Amiri al-Muwaffaq nacque probabilmente a Còrdoba tra il 960 e il 975 d.C., comunemente noto come Mugâhid al-Amiri principe – emiro - di Denia (arabo: al-Daniya), comandante della flotta araba nel bacino occidentale del mar Mediterraneo, conosciuto nelle cronache latine come Museto, Mugeto o Mugettus rex. Come vedremo bene in seguito, egli entrò prepotentemente nella storia sarda medievale in maniera, potremmo dire, quasi dirompente per l’epoca.

Per ciò che concerne l’etimologia del nome Mugâhid, la parola araba mujâhid – مجاهد - si traduce con il termine "combattente". Le parole arabe solitamente hanno una radice di tre lettere, e la radice di mujâhid è J-H-D (ج - ه - د) che significa "sforzo" ed è la stessa radice di jihad che significa "lotta", "sforzo". Il mujâhid dunque è in origine colui che combatte o compie uno sforzo. Nei secoli questo termine ha assunto in arabo un significato prettamente militare e religioso, per cui è traducibile come “combattente del jihad” oppure, semplicemente, come patriota (vedi i combattenti mujaheddin afgani).

La componente umana denominata gli Amiridi, era una “dinastia” di Schiavoni attiva nell'età definita dei Reinos de Taifas (in arabo: Mulūk al-Tawā’if). Il nome gli derivò dall'essere stati loro eponimi i “mawali”, ossia liberti, del hajib e reggente del Califfo omaiyyade di al-Andalus (nome con il quale gli arabi denominavano la penisola iberica) Ibn Abi ‘Amir al-Manṣur, noto ai cristiani come Almanzor, “il vittorioso”.

Tra gli Amiridi figura Mugâhid, liberto a sua volta dell'Amiride ‘Abd al-Rahmân Ibn Manṣur che si installò nella costa orientale iberica denominata Šarq al-Andalus o Levante, e in particolare nella città di Denia e nelle isole Baleari.

In generale con il termine schiavone o sclavone, derivato dal greco Σλάβος (slavos) e dal neolatino Sclabo o Sclavo, si indicavano al principio dell'età medievale quelle stirpi di origine e provenienza più o meno diversa tra loro, comunemente identificate nella famiglia slava, che al termine della trasmigrazione dei popoli avevano compiuto devastazioni principalmente nelle Province Romane del Norico, della Pannonia e dell'Illirico, stanziandosi infine nella penisola balcanica. Col passare del tempo il termine cominciò ad assumere anche altri significati, sia parzialmente legati ancora all'indicazione dei popoli slavi, sia in maniera indipendente da questo concetto.

Nell'Impero Ottomano col termine "schiavone" s'identificava quella componente islamizzata ma d'origine slava, italica o anche cazara, resa schiava per motivi bellici o acquistati nei mercati di uomini, che spesso veniva islamizzata (dopo essere stati evirati e resi eunuchi) e avviata al mestiere delle armi, in considerazione della diffusa credenza islamica che le popolazioni caucasiche e turaniche avessero una spiccata indole guerriera.

Nei territori del sud-est della penisola Iberica l’origine etnica di questi liberti (in arabo ﺻﻘﻠﺐ, Ṣaqlab, Saqāliba) era principalmente ispano-visigota dei regni cristiani della Marca Hispanica, dell’Europa ultrapirenaica, franchi, italici e orientali, fatti prigionieri nel corso di combattimenti e per mezzo di incursioni lungo le coste europee dai corsari andalusi.

Fino ad oggi gli storici hanno inteso attribuire a Mugâhid una ipotetica origine slava messa semplicemente in relazione alla primigenia origine del termine schiavone.

Come abbiamo visto però, all’interno di questa particolare componente umana l’origine slava non era preponderante ed infatti alcune fonti andaluse indicano in Mugâhid certamente un discendente di schiavi, ma di origine sarda e non slava!

Maria Jesús Rubiera Mata in Literatura hispanoárabe riporta la notizia tratta da autori arabi: “(…) Muŷāhid, cultísimo militar de origen seguramente sardo, aunque educado en Córdoba (…)” - Mugâhid coltissimo militare di origine sicuramente sarda, quantunque educato a Còrdoba -. Lo storico Roque Chabas (Los mozárabes valencianos), riporta che l’autore arabo Yacut afferma che Mugâhid era di origine cristiana e che non fosse un fervente musulmano, poiché figlio di una cristiana, che accoglieva nella sua compagnia, e che, fatta prigioniera con tutta la famiglia in Sardegna, non volle essere riscattata perché preferì vivere con la gente della sua stessa religione (probabilmente si tratta invece della madre di Alì Ibn Mugâhid primogenito di Mugâhid, anch’esso catturato dai cristiani e rilasciato dopo sette anni).

Dunque si sostiene, con un certo grado di certezza, che la sua famiglia fosse originaria della Sardegna, e che gli eventi e l’abilità personale lo portarono al governo del principato di Denia nella costa valenciana.

I regni delle Taifas

La genesi dei regni delle Taifas si situa nel primo quarto del secolo XI quando la confusione socio-politica di al-Andalus è all’apogeo. I distinti poteri locali che vanno formandosi dai primi anni del secolo XI si consolidano quando si produce la disgregazione del Califfato di Còrdoba come centro del potere politico che fino a quel momento aveva dominato circa trequarti della penisola Iberica.

Le Taifas sono conseguenza della genesi di piccoli regni indipendenti sorti in alcune città del territorio dominato dal Califfato. Gli schiavoni (almeno quelli che non furono incarcerati nei momenti convulsi del disfacimento del Califfato medesimo), che negli anni precedenti ricevettero le simpatie dei califfi ai quali davano supporto contro la nobiltà di sangue discendente dai primi invasori arabi e berberi della penisola, riuscirono a crearsi localmente ambiti di prestigio sociale e politico elevandosi al rango di signori in ognuno di questi piccoli regni. Tra essi Mugâhid, che a Còrdoba aveva fatto parte del corpo di alti funzionari della corte - fityān o fātas - e fu governatore (wali), probabilmente a Denia, nominato dallo stesso Ibn Abi ‘Amir al-Mansur poco prima del disfacimento dello stato califfale. In relazione a ciò nel 1014 Mugâhid istituì la Taifa di Denia; anche se tra gli storici iberici è ancora abbastanza controverso l’anno di arrivo di Mugâhid e del suo seguito di Amiridi in questi luoghi, che comunque si fa risalire a un arco temporale compreso tra il 1009 e il 1014.

Questi regni ricevettero il nome dispregiativo di “taifa”, che significa partito, banda, perché la loro storia la scrissero i nostalgici del Califfato come il grande Ibn Ayyān, e gli scrittori di palazzo dei regni unitari successivi, che vedevano i re di queste entità come una sorta di usurpatori poiché non discendevano dal profeta e non appartenevano alla aristocrazia di sangue, e dunque per queste ragioni non godettero di una legittimazione islamica.

Nel territorio valenciano si ha la formazione di tre distinte Taifas: Balensiya (Valencia), al-Daniya (Denia) e D’Alpont. Esse si distinsero per le continue ribellioni, congiure e sanguinose rappresaglie, ed era tale l’instabilità politica che tra il 1031 e il 1086 modificarono i loro confini numerose volte, guerreggiando costantemente con i vicini più prossimi. La Taifa di Denia comprendeva le città di Orihuela, Alicante, Cocentaina, Elche incluse le isole Baleari e, come vedremo, per pochi anni parte della Sardegna.

Come entità indipendenti, le Taifas, provvidero ad emettere monetazione propria (pare che Mugâhid fu il primo a emettere moneta a Denia), tra le quali denari in oro e argento, riflesso di una economia attiva.

L’emissione monetaria (arabo: sikka) era necessaria per legittimare e formalizzare il potere politico di queste nuove dinastie. Nelle monete si inserivano oltre ai nomi dei sovrani quello delle autorità religiose, gli imām, unica via per l’investitura califfale. Altra legittimazione era quella di esigere la celebrazione della Bay’a, ossia il compromesso di sottomissione della comunità – sia dalla gente principale che da quella più umile - e l’accettazione delle condizioni che regolavano i rapporti tra il potere costituito e i sudditi.

Per quanto riguarda l’apparato militare, gli eserciti di tali entità politiche erano composti principalmente da mercenari, in particolare la Taifa di Denia aveva una nutrita componente di mercenari catalani. Ciò non stupisce perché questi regni erano molto tolleranti sia con gli ebrei che con i cristiani, tanto che a Denia risiedeva una importante colonia di mercanti cristiani che ottenevano assistenza religiosa grazie ad una convenzione (seppure per alcuni storici ancora controversa) tra Mugâhid e il Vescovo di Barcellona Gislaberto, della quale si parlerà meglio in seguito.

Iniziò così un periodo florido per le Taifas ed una conseguente crescita economica dovuta anche alle esperienze in ogni ambito portate da nuovi immigrati in fuga dalla disgregazione del Califfato, tra i quali artigiani, tecnici, funzionari, letterati.

Questo benessere economico portò all’edificazione di nuovi palazzi ad imitazione dello stile ispano-moresco di Còrdoba; se questa città a suo tempo si convertì in una piccola Bagdad, le capitali dei regni delle taifas se convertirono in piccole Córdoba, dove fiorirono la poesia, l’arte, la filosofia, e la scienza. La città di Denia venne maggiormente fortificata e nel suo porto si apportano migliorie atte a sviluppare le attività navali legate al commercio.

Attività commerciale molto intensa, come ovvio, fu quella degli schiavi, frammista a quelle della seta, del lino e della carta; ogni porto mediterraneo, musulmano o cristiano che fosse, era in affari con queste entità politiche.

Questi regni, in generale, non durarono a lungo in considerazione del fatto che la maggiore parte dei suoi governanti erano eunuchi (in quanto ex schiavi islamizzati) e non potevano generare una dinastia. Unica eccezione fu proprio Mugâhid, il quale non essendo un eunuco ebbe degli eredi.

Nello specifico però il loro dissolvimento delle Taifas fu la conseguenza di una serie di ragioni, prima delle quali le guerre intestine, che vide ogni sovrano combattersi reciprocamente per il predominio territoriale, assoldando eserciti cristiani per combattere i propri vicini-nemici o per astenersi dal combattere… fino al 1085, quando una notizia interruppe le loro ostilità: la conquista di Toledo da parte di Alfonso VI di Castiglia e Leon! I sovrani delle taifas, non convinti dalla proposta di Alfonso VI di regnare tutelando entrambe le religioni, commisero un errore determinante chiamando a loro difesa dall’Africa i berberi della dinastia degli Almoravidi, praticanti il fondamentalismo religioso, i quali sconfissero Alfonso VI grazie a una imponente fanteria, ma nel contempo si scandalizzarono davanti ai modi di questi sovrani che parlavano un linguaggio sofisticato che non comprendevano e che non seguivano con rigore il diritto islamico, e dunque decisero di abbatterli.

Denia: alla corte di Mugâhid

La forte espansione economica fece da tramite per la fioritura delle arti e grazie ai viaggi alla Mecca si imitarono i gusti classici dell’Islam.

Mugâhid, che ricevette una educazione palatina alla corte di Còrdoba, fu mecenate di molti intellettuali, scrittori, filologi, matematici, in particolare di alcuni ulema, un gruppo di religiosi ed esegeti Coranici fuggiti da Cordoba e accolti da Mugâhid a Denia, sovvenzionati con borse di studio per dedicarsi al Qira'at, ossia la scuola di lettura coranica che delucidava sulle varianti testuali del Corano. Nell’isola di Maiorca favorì gli studi di due importanti filosofi quali al-Baji e Ibn Ḥazm rinomati nel mondo islamico peninsulare.

Sempre sotto la sua protezione, e favorendo le loro arti, vissero anche a Denia Aamer Abu Ahmad ibn Garcia un intellettuale e poeta, ex schiavo di origine basca resosi famoso per il forte disprezzo per gli arabi nelle sue scritture, ed anche Ḳasṭar Ibn Ishak (o anche Ishak ibn Saḳṭar) grammatico e medico ebreo di Toledo, medico personale di Mugâhid e poi di suo figlio, molto versato nella logica, nella grammatica e nella legge ebraica, che lo portò a confrontarsi con le opinioni di numerosi filosofi.
La cancelleria di Mugâhid mantenne viva la tradizione di scrittura epistolare in prosa rimata, secondo quanto a suo tempo era stato elaborato e perfezionato dalle varie corti arabo-islamiche. Tutto ciò fece di Denia un importante polo di attrazione per artisti e intellettuali dell’epoca.

Narrano le cronache che Mugâhid non fosse particolarmente incline alla poesia e ai poeti – nonostante li accogliesse alla sua corte - ma preferisse filologi, ulema e prosatori - poiché filologo egli stesso - credendo che i poeti non utilizzassero la parola con proprietà. Dinanzi alla figura dell’anziano poeta Ibn Darrāŷ, Mugâhid ascoltò in religioso silenzio quando egli declamò le lodi del sovrano quale intrepido marinaio capace di conquistare con le sue navi le isole Baleari e la Sardegna:

"Naves que son como esferas celestes y donde sus arqueros / son estrellas, armadas de punta en blanco. / Cruzas con ellas los abismos del mar, / y sus olas se fatigan por el peso abrumador".

Quando però i poeti non erano all’altezza di Ibn Darrāŷ, ne faceva oggetto del suo disprezzo. Un giorno gli si presentò davanti il poeta Abū ‘Alī Idrīs ibn al Yamānī di Ibiza – isola famosa per i suoi ginepri - e mentre l’emiro era intento a tirarsi alcuni peli che aveva sulla guancia, il poeta balearino gli recitò nel seguente farraginoso stile:

"Cuántas noches he viajado, preocupado porque conmigo no iba la estrella de la buena suerte; iba acompañado de un grupo de gentes altivas como leones del desierto o serpientes.
Vestían las negras tinieblas, cuando andaban por la noche; se velaban con el resplandor de la mañana, cuando caminaban por el día; caminan al occidente de cada tierra en su oriente, y el oriente de cada tierra es occidente.
El alba está velada y la noche ha tendido su tienda; es como si las deslumbrantes estrellas fuesen un grupo de gente entre los que se levanta la luna como un predicador en el púlpito.
Es como si la luz de la aurora fuese la bandera de un jinete que siguiese un ejército de estrellas. Es como si el rayo del sol fuese el rostro de Muŷāhid cuando ilumina con su resplandor el atardecer".

Quando il poeta terminò il poema, Mugâhid le prese la pergamena sulla quale era scritto, se la portò alla narice, la annusò turandosi le narici con le dita e disse: «Il tuo poema puzza di ginepro». (M. J. Rubiera Mata, La taifa de Denia, Alicante, 1988 (2.ª ed.), pp. 132-134).

Le spedizioni in Sardegna

L’ipotizzata origine sarda di Mugâhid offrirebbe una chiave di lettura molto suggestiva della sua vicenda personale relativa alle spedizioni di conquista della Sardegna. Fino ad oggi questa sua singolare “ossessione” per l’isola, è stata interpretata come una necessità di usare la Sardegna come una base sicura, una sorta di trampolino per assoggettare anche le coste italiche. Tutto ciò risponde al vero, la Sardegna offriva realmente approdi sicuri e vettovagliamento per progettare con più tranquillità l’attacco alla penisola italica, ma non basta a comprendere bene questa brama di possesso dell’isola da parte di Mugâhid, se non nel desiderio di rendersi sovrano della terra che potrebbe avere dato i natali ai suoi avi (genitori?), anche se altre cronache lo danno figlio di un non meglio precisato Yusuf: Mugâhid Ibn Yusuf.

Ripercorriamo ora i suoi tentativi di invasione della Sardegna così come sono riportati dalle fonti, che spesso, tra cronache arabe e latine, si contraddicono vicendevolmente, dicendo chiaramente che le invasioni di Mugâhid non furono semplici incursioni piratesche per razziare e depredare il territorio sardo ma bensì vere e proprie spedizioni militari su vasta scala di occupazione territoriale dell’isola!
Probabilmente nel 1014-1015, anno 406 dell’Egira, organizzò una spedizione di conquista della Sardegna. Dicono le fonti che la sua flotta era imponente e degna di una grande spedizione militare. Contava 120 navi su cui erano stati imbarcati 1.000 cavalli, così come riferisce Ibn al-Khatib.

In base alle interpretazioni di alcuni storici il luogo dello sbarco dell’armata viene indicato alternativamente come il Giudicato di Calari o quello di Oristano, altri invece sostengono, per una serie di ragioni di natura geografica, che fossero più indicati i Giudicato di Torres (Logu de Ore) e Gallura, e in particolare il tratto costiero nord-occidentale raggiungibile attraverso la rotta che dalla penisola iberica porta alla Sardegna attraverso le isole Baleari luogo di partenza della spedizione.

Un tentativo di resistenza venne organizzato, forse anche in maniera improvvisata, da quello che le fonti indicato come il capo dei difensori: Malût, tradotto come Maloto e indicato come il Giudice (Judike), ma come giustamente sostiene lo storico Corrado Zedda nei suoi studi, Malût pare la corruzione del termine arabo “Malik” (o “Mulk”), ossia principe o capo - dei sardi -, dunque potrebbe trattarsi di un Giudice (o di un Signore o re dei sardi, come sostiene Zedda che fa risalire la formazione dei Giudicati a questo periodo storico, per meglio difendere il territorio dopo l’esperienza negativa della spedizione di Mugâhid) ma di certo il suo nome non era Maloto, dato che non c’ è noto un Giudice con tale nome assolutamente incomprensibile per l’onomastica sarda medievale.

I difensori vennero sconfitti lasciando sul campo il loro capo Malût, e probabilmente il Giudicato si trovò in un pericoloso vuoto di potere.

Le fonti narrano che la notizia arrivò fino ai capi dei Rum (così gli arabi denominavano gli europei cristiani), forse il Papa e le marinerie di Pisa e Genova, che allestita una flotta fecero rotta verso la Sardegna e ingaggiarono battaglia contro i musulmani che furono sconfitti perdendo alcune navi e lasciando nelle mani dei cristiani un fratello (o una compagna cristiana) e il figlio dell’emiro, Ali ibn Mugâhid, conosciuto in seguito come Ali Iqbal al-Dawla (avuto da una cristiana) che alla morte del padre nel 1044/45 prenderà il suo posto, dopo alcune traversie legate alla successione, nella guida dell’emirato di Denia.

Un’altra versione racconta invece che Mugâhid prese possesso della gran parte della Sardegna espugnandone le fortezze, ma che al sopraggiungere della flotta cristiana nel tentativo di fuggire, la sua armata rimase bloccata in un golfo, o porto, dove un forte vento sbaragliò la sua flotta facendo naufragare molte sue navi sugli scogli di un’isola chiamata dagli arabi Giazirat Ash-shunda (isola dei martiri) indicata da alcuni come l’isola di Mortorio in Gallura. I musulmani superstiti fecero vela verso Denia abbandonando la Sardegna.

Una terza fonte, araba, sostiene che Mugâhid ritornò con una sua flotta ad invadere la Sardegna e ne occupò la maggiore parte per sette anni dal 1018/19 al 1025/26 (dal 409 al 416 dell’Egira), stabilendosi e riedificando una antica città sarda, ritirandosi in seguito non perché ne fu cacciato ma probabilmente per la malaria che infestava quei luoghi. Successivamente i sardi demolirono la sua città che al tempo della cronaca era già in rovina.

Se fosse reale lo sbarco delle spedizioni musulmane lungo la costa nord-occidentale della Sardegna, Turres, l’antica Turris Libysonis, potrebbe essere stata l’antica città citata dalle fonti e occupata da Mugâhid? La quale divenne la sua nuova reggia e da qui si organizzò immediatamente per puntare dapprima alla conquista dell'isola intera e poi lanciarsi eventualmente alla conquista del tratto tirrenico della penisola italica.

A questo proposito, giusto come spunto di riflessione, a Porto Torres nel sito dove presumibilmente era collocata l’antica città di Turris Libysonis, esistono le antiche terme Metzkae. I grandiosi resti monumentali, ancora in gran parte da mettere in luce, appartengono ad un complesso termale a carattere pubblico databile, in base ai mosaici ed alla tecnica edilizia, all'inizio del III - fine del IV sec. d.C. Le imponenti emergenze sono rimaste sempre visibili nei secoli, stimolando la fantasia popolare che le interpretò come le rovine del palazzo di Re Barbaro che, secondo la tradizione, condannò a morte il martire Gavino. Le terme centrali - Palazzo di Re Barbaro - sorgono principalmente nell'area destinata al Parco Archeologico ed occupano un isolato delimitato da porzioni di strade urbane pavimentate con lastre di trachite.

È possibile che questo “Re Barbaro” sia stato invece Mugâhid e non un fantomatico governatore romano di nome Barbarus? La fantasia popolare potrebbe conservare il ricordo di un Re musulmano (barbaro, appunto, per i sardi dell’epoca) degli albori del medioevo, insediatosi in quelle antiche terme? Secondo una certa tradizione Mugâhid stesso si sarebbe fatto incoronare Re di Sardegna, il primo e unico sovrano sardo musulmano! Allo stato però non risulta che in nessuna delle indagini archeologiche portate avanti in questi anni in loco, sia mai emerso niente che possa essere accostato o ricondotto a una presenza islamica.

Alghero a sua volta potrebbe essere stata un presidio militare organizzato da Mugâhid lungo la costa nord-occidentale? A questo proposito Bisogna fare alcune considerazioni sul nome e l’etimologia di questa città.

I primi documenti in latino che parlano di Alghero riportano il nome: Locus seu villa de Alguerio, civitas et villa Alguerii, e in catalano: lloch, villa de l'Alguer (pronuncia: L’Alghè). Pare che il nome al tempo dell’insediamento de Doria fosse “La Ligera” e dunque potrebbe essere stato qualcosa di simile a “La Liguera”, “La Ligure”, toponimo corrottosi nel tempo e dal quale potrebbe essere derivato l’attuale Alghero. “La Ligure” dunque, poiché fondata (o rifondata) da genovesi della Liguria, il cui nome deriva dall’antica popolazione dei liguri in greco Λιγυες (Ligues) e in latino Ligyes, Ligures.

Altrettanti dubbi sorgono sull’etimologia del nome del borgo, perché difficilmente è accostabile al nome dell'alga marina che si deposita in gran numero sulle spiagge algheresi, seppure nella denominazione sardo-logudorese “S'Alighera” sembra richiamare il nome dell’algha, ma a ben vedere la pronuncia sarda sembra suonare talvolta come “Sa Lighera”, in cui il riferimento all'alga si dissolve completamente.

Il toponimo potrebbe derivare altresì dall’arabo “al-Giazir” con significato di “porto con un'isola”, com'è appunto Alghero, similmente ad altri nomi di porti mediterranei quali Algeri e Algeciras di fondazione musulmana. Oppure sempre dall’arabo “al-Ghar” (la fortezza, il castello). Ciò premesso, quasi nessuno prende in considerazione la possibile origine araba del nome di Alghero, anzi viene piuttosto reputata fantasiosa, ma io credo invece che abbia una sua credibilità, e se realmente il presidio militare di Mugâhid fosse stato eretto in questa zona, magari su precedenti strutture o riadattando e fortificando un borgo già esistente in un luogo già abitato da epoche antichissime, non stupirebbe il nome attribuitogli quale porto naturale con un’isola, e che in seguito alla cacciata dei musulmani venne ripopolato da cristiani alterandone così il nome.

Altro presidio militare di Mugâhid potrebbe essere stato la fortezza del Castellaccio dell’Asinara, unica fortezza mediterranea che porta ancora il nome di uno dei suoi più noti possessori, il cinquecentesco corsaro musulmano Khayr ed-Din Barbarossa.

Di essa non si conosce l’esatta origine, alcune indagini archeologiche ne attribuiscono l’edificazione ai catalani nel XIV secolo d. C., altri ai Malaspina, altri ai Doria. Nulla vieta pensare che il fortilizio potrebbe essere stato riedificato riadattando precedenti strutture in rovina, e non stupirebbe che Mugâhid l’avesse eretto per controllare il tratto marino che separa l’isola dell’Asinara dalla Sardegna, ed eventualmente segnalare l’avvicinamento di vascelli, lo stesso motivo per il quale venne occupato nel XVI secolo d. C. dai turchi di Barbarossa. Questa particolare predisposizione al controllo attualmente fa del Castellaccio una postazione per la vedetta antincendi, e i visitatori possono accedervi solo con la guide dell'Ente Parco.

La morte

Le fonti riportano che Mugâhid morì, probabilmente a Denia, nell’anno 406 dell’Egira, il 1044/45 d.C., dopo avere governato per circa trenta anni (l’autore arabo - Ibn ‘Idari - indica in trentasei gli anni di regno fa risalire la fondazione della Taifa al 1009/1010). È facile supporre che morì di vecchiaia dato che era quasi ottuagenario. Stupisce davvero che abbia potuto raggiungere una così veneranda età per l’epoca, dopo una esistenza trascorsa a percorrere il Mediterraneo, e a condurre il suo regno attraverso numerose battaglie.

Le cronache latine hanno romanzato grandemente sulla sua morte, facendo credere che i cristiani abbiano avuto l’onore di porre fine all’esistenza dell’emiro, ma probabilmente non fu così poiché Mugâhid riuscì sempre a ritornare a Denia dopo le sue spedizioni marine. La cronica pisana (ma anche le false Carte d’Arborea trattarono l’argomento) favoleggiando su Mugâhid, raccontano che nel corso di una epica battaglia la su flotta venne sbaragliata e l’emiro, alla mercé dei cristiani, venne trafitto, ucciso e infine decapitato da un sardo. La sua testa venne issata nell’albero maestro dell’ammiraglia della flotta sarda che, preso il largo, venne gettata in mare aperto.

I figli

Come è stato già accennato Mugâhid non era un eunuco e dunque generò dei figli.
Il primogenito Alì Ibn Muyahid Iqbal al-Dawla, di madre cristiana, e il secondogenito di differente madre Hasan, identificato come Laqab Sa‘d al-Dawla. Le fonti iberiche ci parlano anche di due figlie, sorelle uterine del secondogenito Hasan. Di esse non si conosce il nome, ma si sa che entrambe, nel gioco delle alleanze tra regni, andarono in spose una alla corte di Valencia, mentre l’altra, che le fonti identificano come la Principessa di Denia e delle Baleari nata verso il 1019, alla corte di Siviglia dove sposò Muhammad II, Abu Al-Mu'tadid, re di Siviglia (Siviglia 1014–1086). Il loro figlio, nipote di Mugâhid, Muhammad III (Abu l'Kasim) Al-Mu'tamid, re di Siviglia (Siviglia 1040–1095), ebbe a sua volta una figlia di nome Zaida (Maria Isabel) Principessa di Denia (1071–1103) che andò in sposa addirittura al conquistatore di Toledo Alfonso VI "Il Valente" re cristiano di Castiglia, Leon e Galizia (Burgos 1040 circa–Toledo 1109).

In base alle regole dinastiche il primogenito succedeva al padre nella guida del regno, sennonché Alì fu catturato durante la spedizione in Sardegna del 1015, anno 406 dell’Egira, e riscattato dopo circa sette anni quando aveva circa sedici o diciassette anni, pare dopo avere trascorso l’esilio presso la corte dell’imperatore del Sacro Romano Impero germanico. In virtù di ciò in prima istanza Mugâhid designò alla sua successione il secondogenito Hasan (secondo Ibn ‘Idāri), una volta però riscattato il primogenito pare che Mugâhid li associasse entrambi al trono ma con una predilezione per il primogenito Alì, scatenando così la reazione di Hasan. Il quale, all’atto della rottura della compartecipazione al trono, ottenne l’appoggio del cognato Muhammad II re di Siviglia per assassinare il fratellastro Alì reputato dinasticamente inferiore probabilmente perché figlio di una cristiana.

Il tentativo di assassinio di Alì avvenne in un vicolo mentre questi rientrava da guardare il mare, ma fallì (vi sono narrazioni differenti su questo avvenimento). In virtù di ciò, frustrato dal mancato attentato, Hasan fuggì da Denia e si rifugiò presso l’altra sorella alla corte di Valencia. Con l’allontanamento forzato di Hasan e dopo la morte di Mugâhid, Alì poté dunque consolidare il suo potere a Denia, e sempre nel solco delle alleanze tra regni sposò una regina del regno di Saragozza dalla quale ebbe un figlio di nome Muhammad Ibn ‘Ali Ibn Mugâhid (Muhammad Mu‘izz al-Dawla) che in seguito associò al trono, ma che non ebbe la possibilità di succedere pienamente al padre poiché Alì successivamente, verso il 1075/76, venne assassinato per ordine del suocero Abd Allah al-Muqtadir re di Saragozza della dinastia dei Banu Hud, che così usurpò il potere della Taifa di Denia retto dalla dinastia di Mugâhid.

Come Mugâhid anche Alì fu amante delle arti, cosa che comunque contraddistinse quasi tutti i sovrani di al-Andalus, e più del padre, come abbiamo visto spesso critico con i poeti, della poesia. Ibn al-Labbāna ne fu il maggiore rappresentate, ma anche Idris Ibn al-Sabbini delle Baleari, e altri intellettuali come il filosofo, scienziato, medico, botanico e musicologo Abū-l-alt (1067-1134) nativo di Denia.

Il periodo di regno di Alì si contraddistinse per una politica di patti di non belligeranza con i regni cristiani, tra cui Pisa e Genova, in modo che i commerci nel Mediterraneo si potessero sviluppare senza troppe difficoltà. Una fonte (libro dei conti di Nahray b. Nissim per l'anno 1044/45) cita un naviglio denominato “Markab Mujahid” approdato ad Alessandria d’Egitto da Denia. Altri cronisti affermano che Ibn Mujahid inviò in Egitto un carico di cibo durante una grave carestia.

Dando corso alla precedente convenzione del padre con il vescovo di Barcellona, si sostiene che Alì in segno di amicizia abbia messo le isole Baleari e Denia, data la numerosa presenza di cristiani, sotto la giurisdizione del vescovo di Barcellona Gislaberto. Riporta Roque Chabas (Los mozárabes valencianos) che una copia di un documento conservato nel cartulario della cattedrale di Barcellona riporta la notizia che: « Omnes Ecclesias et Episcopatum Regni nostri, quæ sunt in insulis Balearibus et in urbe Denia (…) ut omnes clerici, Presbiteri et Diaconi in locis preæfatis commorantes... minime conentur deposcere ab aliquo Pontificum ullius ordinationem clericatus, neque chrismatis sacri confectionem, neque cultum aliquem ullius clericatus, nisi ab Episcopo Barchinonensi».

Conclusioni

La storia affascinante di Mugâhid nei secoli ha alimentato leggende, ha subito le faziosità delle cronache degli avversari cristiani e ha beneficiato di fonti inaffidabili, rimaneggiate magari da cronisti musulmani per aumentarne la fama. Alcune leggende gli attribuiscono addirittura l'invenzione dei disegni arabescati, usati per riconoscere i gradi militari sul bavero della giubba, e l'invenzione degli alamari, il cui nome, ritengo però erroneamente, deriverebbe da Mugâhid al-Amiri.

Comunque sia fu senza dubbio un ottimo ammiraglio, capace comandante e astuto stratega militare. Non solo un combattente, ma anche un sovrano illuminato, un mecenate, che con la sua politico riuscì in un’abile opera per garantirsi il dominio a Al-Andalus e imporre per anni la forza dell’Islam nel Mediterraneo occidentale.

Per concludere, questa mio lavoro si basa esclusivamente su alcuni studi specifici di storici - principalmente iberici che si rifanno a fonti andaluse -, corredata da alcune mie supposizioni. Come ovvio, non ha alcuna pretesa se non quella, come detto nell’incipit, di portare a maggiore conoscenza dei lettori questa affascinante figura storica.

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Corredo fotografico


Muyahid al-Muwaffaq. Frazione di dinaro. Taifa di Denia. 1043-1044.
Museo di Preistoria di Valencia.



Dinaro dell’XI secolo emesso nel regno taifa di Denia.


Porto Torres: Palazzo di Re Barbaro, corpo centrale delle terme.


Isola dell’Asinara: il Castellaccio o Castello di Barbarossa.


Denia: il Castello risalente all’XI secolo. Foto d’epoca.


Taifa di Denia.


La taifa di Denia e il mediterraneo nel secolo XI (Rafael Azuar Ruiz, La taifa de Denia en el commercio mediterráneo del siglo XI).


Rapporti conviviali tra musulmani e cristiani a al-Andalus.


Emiro musulmano.
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* L’articolo (immagini escluse) è coperto da licenza Creative Commons BY-NC-ND 2.5 (citare fonte e autore).
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Ramadan Pascià

(Articolo pubblicato su "Sardegna Mediterranea" - semestrale di cultura n. 25, anno XIII, numero 1, 1° semestre 2009, pp. 24-27)


RAMADAN PASCIA’
IL SARDO CHE NEL 1500 FU RE DI ALGERI, GOVERNATORE DI TUNISI E TRIPOLI, AMMIRAGLIO DELLA FLOTTA TURCO-OTTOMANA PER CONTO DEL SULTANO SOLIMANO IL MAGNIFICO


Giuseppe Ruiu


Una delle più importanti cariche dell’Impero Ottomano, il Beylerbey che significa “Emiro degli emiri” designava il titolare della più alta carica nella provincia dell’Impero Turco in Nord-Africa o Maghreb (zona geografica che all’epoca era conosciuta nell’occidente cristiano con il nome di “Barberia”, “Berberia” o “Barbaria”). Titolo di rilevante importanza che non si ebbe prima dell’epoca di Arudj Barbarossa. 

Il più vecchio dei fratelli Barbarossa fu il primo a ricevere la Reggenza di Algeri e la sua nomina ufficiale venne fatta a Costantinopoli (Istanbul) nel 1534 da parte del Sultano Solimano il Magnifico. I Beylerbey di Algeri esercitavano la loro sovranità sui Pascià di Tunisi e Tripoli e non avevano superiori se non le direttive del “Divano”.

L’epoca dei Beylerbey (1518-1587), i “Re d’Algeri” così chiamati da Diego de Haedo frate benedettino spagnolo che aveva “visitato” Algeri tra il 1578 e il 1581, designò i primi anni della reggenza sotto tutela della “Sublime Porta” che nominava i suoi rappresentanti nel Maghreb.

I Beylerbey di Algeri:

1 Arudj Barbarossa (1516-1518)
2 Khayr ed-Din Barbarossa (1518-1533)
3 Hassan Aga Sardo (1534-1543)
4 Hadji Pascià (1543-1544)
5 Hassan Pascià (1544-1551)
6 Caïd Saffa (1551-1552)
7 Salah Pascià (1552-1556)
8 Hassan Corso (1556)
9 Théchéoli Pascià (1556-1557)
10 Yussuf (1557)
11 Yahya Pascià ( 1557)
12 Hassan Pascià (1557-1561)
13 Hassan Aga et Couça Mohammed (1561-1562)
14 Ahmed Pascià (1562)
15 Yahya Pascià (1562)
16 Hassan Pascià (1562-1567)
17 Mohammed Pascià (1567-1568)
18 Occhiali Pascià (1568-1572)
19 Arabo Ahmed Pascià (1572-1574)
20 Ramadan Pascià Sardo (1574-1577)
21 Hassan Pascià Veneziano (1577-1580)
22 Djafer Pascià (1580-1582)
23 Ramadan Pascià Sardo (1582)
24 Hassan Pascià Veneziano (1582-1587)


Tra essi ben due furono i Pascià Sardi, catturati in giovane età sulle coste dell’isola e portati nel Nord-Africa, dove in seguito a una serie di vicende e a indiscutibili abilità personali assursero alla più alta carica provinciale dell’Impero Ottomano.

Il primo fu Hassan Aga l’eunuco (sul quale poco ci si sofferma sia per la scarsità delle fonti a lui dedicate sia perché portato a conoscenza da Luigi Pinelli nel suo libro del 1972, e recentemente riscoperto dallo scrittore Massimo Carlotto nel suo romanzo: Cristiani di Allah, del 2008) catturato nientemeno che da Khayr ed-Din Barbarossa in persona, all’epoca dimorante saltuariamente nella fortezza detta del Castellazzo all’Asinara, il quale lo prese sotto la sua tutela e lo instradò verso la carriera corsara. Alla morte del Barbarossa prese il suo posto nella reggenza di Algeri nel 1535. Le poche fonti lo descrivono minuto di statura ma ben proporzionato e di bell’aspetto.

Fu il Khalifa Hassan Aga che diresse con successo la resistenza della città contro il famoso attacco dell’Armada spagnola dell’Imperatore Carlo V ad Algeri nel 1541: “Mai in nessun caso, un Re diede prova di coraggio, d’esperienza e di prudenza come lui in quella occasione” citano le fonti. Fu ben voluto e rispettato dalla popolazione e alla sua morte fu rimpianto da tutti quelli che lo conobbero. Il senso di giustizia e la generosità furono le sue doti migliori anche se crudele in certune circostanze.


Barbarossa

Il secondo Beylerbey sardo fu invece Ramadan Pascià, alcune fonti riportano varie grafie del nome: Rabadan Pacha, Ramadan Baja, Cayto Ramadan Pascià, Ramadan Sardo.

Fatto schiavo molto giovane in Sardegna è portato ad Algeri. Sposa in seguito una giovane rinnegata corsa (o sarda), di nome Emina.
Acquisì una buona reputazione negli anni in cui occupò la carica di Caïd in diversi paesi. Nell’ottobre del 1569 prese parte con l’ammiraglio Occhiali, anch’egli rinnegato cristiano calabrese di nascita, alla spedizione contro Tunisi.

Nel gennaio del 1570 venne lasciato dall’Occhiali al comando –governatorato- della guarnigione di Tunisi, rafforzò la sua posizione con l’ausilio dei giannizzeri (corpo militare d’elite ottomano costituito in gran parte da uomini nati cristiani e fin da fanciulli, dopo la cattura e conversione all’Islam, addestrati all’arte militare). Pacificato il paese, si dedicò alla guerra di corsa prelevando dai corsari la decima parte dei loro bottini, compresa la cattura degli schiavi.

Nel 1573 con la conquista di Tunisi da parte di don Giovanni d’Austria, venne richiamato a Istanbul. L’anno dopo venne inviato ad Algeri per ricoprire la carica di Beylerbey dove ne prese possesso nel 1574.

Rabadan Pascià regnò sulla Reggenza per tre anni e un mese. Nel corso di questo tempo, Algeri fu più tranquilla di quello che non fosse mai stata ed egli governò con giustizia ed equità tanto che non si ebbe un solo suddito che si lamentò di lui. Si contraddistinse per un’azione a Fez nel 1576 avente ad oggetto di ristabilire in trono il Sultano Moulay Muluch.

Nel 1577 lasciò Algeri per trasferirsi a nuovamente alla corte di Istanbul. Nel giugno del 1579 inviò un’accorata lettera al re di Francia Enrico III a seguito della cattura di una nave mercantile francese da parte dei suoi uomini. Nel 1580 ha il comando della flotta dell’Occhiali alla morte dell’ammiraglio calabrese.

Nella primavera del 1581 mediante una forte somma di denaro sborsata al Sultano, venne eletto pascià di Tripoli. Giunse a destinazione con la moglie Emina. Si trovò a dovere fronteggiare la rivolta delle tribù del circondario, che non furono comprese nel decreto di limitazione delle tasse emesso dal suo predecessore Chiafer Rais. Fece mettere a morte alcuni capi turchi che fomentarono la rivolta, i cui parenti in seguito lasciarono Tripoli.

Nel 1582 per la seconda volta assunse la reggenza di Algeri. Fu inviato su espressa volontà del Sultano Solimano il Magnifico, con il compito di far cessare la “guerra di corsa” dei Turchi e Mori del Nord-Africa contro i francesi alleati in quel tempo dei Turchi stessi.
In seguito il capo della Taïfa Mami Arnaute diresse una rivolta contro il Pascià che venne sconfitto e il Raïs si rese capo della città.
Nel 1583 fu di nuovo a Tripoli dove dovette controllare una nuova rivolta nel territorio circostante, nella quale i ribelli si spinsero sino alle porte del capoluogo.


Solimano il Magnifico

Nel marzo del 1584 giunse a Tripoli il vascello inglese "Jesus", accompagnato da due mercantili, uno dei quali comandato dal francese Sonnings. Arrivò nel contempo anche una nave da Bristol. Il capitano di quest'ultima, Miles Dickenson, venne truffato dal francese che, inoltre, cercò di sfuggire anche ai dazi imposti alle merci in entrata nel porto. Ramadan intervenne per mettere fine ai disordini causati da alcuni colpi di cannone; decise, alfine, di fare arrestare i contendenti. Intervenuti i giannizzeri, costoro misero a morte il Sonnings ed un altro capitano.

Negli ultimi anni del suo governatorato si mese alla testa delle truppe e diede inizio a una campagna nel Garian contro la popolazione dei Beni Oulid: non trovando eccessiva resistenza. I ribelli, infatti, si addentrarono nel paese interrando i pozzi d’acqua alle loro spalle. Nacque il malcontento fra i suoi uomini a causa della mancanza d’acqua. Alla fine fu obbligato a rientrare a Tripoli. E’ qui fu ucciso in una congiura dai giannizzeri.

Il frate benedettino spagnolo Diego de Haedo lo descrisse come: “Un uomo di cinquantacinque anni, di altezza media, con la carnagione scura, una folta barba nera, una certa pinguedine e gli occhi un po’ strabici. Buon governatore, equo e privo di cupidigia, egli amava molto leggere testi di religione, arabi e turchi, attività in cui occupava tutto il tempo lasciato libero dagli affari.”

Il Fisher disse anche lui che fu popolare e amato da turchi e mori, sotto il cui governatorato si ebbe giustizia ed equità, pace e tranquillità come non mai prima, così il popolo fu, in maniera poco naturale, dispiaciuto quando egli venne trasferito a Tunisi. 

Il De Grammont disse invece che aveva un cattivo carattere, ma cronache spagnole di Valencia lo descrivono come un uomo con uno spiccato senso di giustizia e dotato di buona diplomazia, preoccupato, comunque, dalla paura che potesse essere sospettato di favorire eccessivamente i cristiani… Egli ebbe una sola moglie, una corsa, e tre bambini. Entrambe le figlie sposarono dei rinnegati, rispettivamente uno spagnolo e un napoletano (o veneziano – ndc).


Solimano II ritratto dal Tiziano

Bibliografia

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Più in generale per chi volesse approfondire la storia dei rapporti sociali e commerciali –schiavismo in particolare- tra Maghreb ed Europa dal secolo XVI fino ad epoche più recenti veda:

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Marianu IV de Arbarèe su soberanu prus mannu

(Artìculu pubricadu dae "LogoSardigna", Nadale 2008 – n. 4)

Zusepe Ruju

Chentza duda peruna podimus nàrrere chi su Giùighe (Re) Marianu IV de Arborea (Aristanis 1317-1375) est istadu su soberanu prus mannu e importante chi sa Sardigna apat mai àpidu.

Omine acurturadu, fine legisladore e capatze conduidore militare, fiat in currispundèntzia epistulare cun sas prus mannas personalidades de su tempus e in particulare cun Caderina dae Siena chi aiat bidu in Marianu s’esempru bivente de unu soberanu illuminadu. Pro liberare su Santu Sepulcru in Jerusalemme Marianu s’ impinnaiat cun Santa Caderina pro duas naves, tremìgia fantes, seschentos balastreris e milli caddos. Custu pro nos fàghere cumprèndere s’importàntzia e sa richesa de su Rennu sardu.

In su 1333 Marianu, su de duos figios de su Giùighe Ugone II de Bas-Serra e de una fèmina sarda chi sos documentos istòricos no mentovant, beniat educadu, segundu s’intendimentu de su babbu, in sa corte de Alfonso su Benignu, conte de Bartzelona e Re de Aragona, in cussu tempus alliadu de sos sardos. A s’edade de dòighi annos, in su 1331, fiat dae matessi re armadu cadderi umpare a su frade Giuanne.

Sas crònicas medievales lu narant poliglotta, faeddaiat currentemente sa limba sarda, sa latina, sa catalana e fintzas s’italiana; in sa corte sua beniant artistas, mastros e àteros òmines de cultura dae s’Europa intrea e non solu, paret chi bi fiat finas un’indovinu moru de Berberia (in custu fiat òmine de su tempus).

In s’annu 1336, a sa morte de su soberanu Catalanu, torraiat pro pagu tempus in Aristanis ca semper in s’annu matessi cojuaiat sa catalana Timbors de Roccabertì in Bartzelona, dae sa cale fiant nàschidos tres figios: Ugone (1337), Lionora (1340 prus o mancu) e Beatrice (1341/2).

In su 1339 li beniat connotu dae parte de Pedru de Aragona su tìtulu onorìficu de Sennore de sa Marmidda casteddaia e Conte de su Goceanu (logos ultrajudicatum in manu de sos Arborea ma ufitzialmente de su Regnum Sardiniae et Corsicae) e solu pro custos tìtulos fiat vassallu de su Re Catalanu e non, comente narant paritzos istòricos, pro su Giudicadu intreu, pro cussu, segundu sas leges de su tempus depiat torrare gratzias solu a Deus e a sa “Corona de Logu”: «Nos Marianus Vicecomite de Basso Comite Gociani et Dominus Marmille pro gratia de Deus et de Coronam de Loco Judike Arboream».

In su 1442 torraiat cun sa famìllia sua in Sardigna, e in s’annu 1345 a bintot’annos beniat intronizadu dae sa “Corona de Logu” Giùighe de Arbarèe a sa morte de su frade Pedru III.

In antis de èssere fattu Giùighe Marianu aiat bìvidu umpare a sa mugere e a sos figios in su casteddu de su Goceanu (in die de oe est finas possibile bìdere cuddos logos istòricos) e aiat fattu repopulare su burgu de su casteddu cuntzedende a sos colonos unu pabilu de deretos e franchigias: su “Codice Agrariu” (leadu pustis a esempru dae sa figia Lionora in sa famada “Carta de Logu”) chi aiat postu sas bases pro una politica de isfrutamentu de sa terra chi si fiat ademustrada fundamentale in sos annos a bènnere de gherra e pro sa torrida a leare econòmica de su Giudicadu intreu, chi fiat in crisi pro neghe de sas gherras contra su Cumone de Pisa.

Marianu IV, in su 1343, si fiat fatu pintare, craru de pilos e birde de ogros, chinghende s’ispadone de caddero, dae unu pintore napolitanu in su polìticu de sa Catedrale de Ottana in ue b’est iscritu: «DOMINUS MARIANUS DE ARBOREA DOMINIJS GOCIANI ET MARMILLE FECIT FIERI».

In su documentu “Proceso contra los Arborea” unu marcante genovesu in Casteddu nos contat chi su Giùighe Marianu, “insieme ai suoi terribili barbaricini”, conduiat a dae in antis de totu s’esèrtzitu Giuigale a suta de Castell de Caller pro li pònnere fogu e leare su casteddu dae manu de sos catalanos, chi a comintzare dae su 1353 non fiat prus alliados suos. Difatis, a pùstis de àere muntesu custa alliantza diplomàtica pro prus de bindigh’annos, Marianu aiat cumpresu bene meda chi s’iscopu de sos catalanos fiat cussu de conchistare cun gradualidade s’isula intrea. A partire dae como, sa Nacion Sardesca conduida dae s’erentzia de Arborea iscriet una de sas pàginas prus gloriosas de s’istòria de sos Sardos.

Sa Sardigna intrea, a parte Casteddu, Lungoni e S’Alighera (su Re catalanu in persona fiat bènnidu pro la leare), fiat in manu a Marianu chi mustrat totu sa capatzidade sua comente ghiadore militare umpare a su fìgiu Ugone.

A pustis de sa paghe de Seddori de su 1355 torrat a comintzare sa gherra. Sos Aragonesos creende de l’acabare una borta pro totu si presentant cun s’esèrtzitu issoro conduidu dae su cumandante Don Pedro De Luna suta de Aristanis, ma s’attacu improvisu e detzisu de Marianu cun Ugone ponet sos catalanos in ruta e iscunfitos.

Sa gherra paret detzisa a favore de Marianu, chi cun abilidade polìtica cuntzedit a sos Sardos teracos de su Reyno de Sardenya sa libertade si si faghent suditos de s’Arborea pro gherrare contra s’invasore. In totu sas cuntradas de Sardigna si pesat sa boghe manna: «Arborea a susu, Aragona a bàsciu», umpare a s’arvure israighinadu emblema de sa domo de Arborea chi dae como in antis benit cunsideradu (finas dae sos catalanos: “la bandera de los sart”) comente bandela natzionale sarda.

Su Paba de Roma, in curispundèntzia cun Marianu, aiat guasi detzisu de li donare sa corona de su Regnum Sardiniae, ca sos catalanos fiant malos pagadores; ma totu in una sa pestilèntzia accabaiat sos sònnios de fàghere sarda e indipendente sa Sardigna intrea, de custu soberanu mannu chi in su 1375 moriat in Aristanis lassende sa corona giuigale a su fìgiu Ugone III.

Artìculu iscritu in Limba Sarda Comuna dae s’autore.


Su soberanu Marianu IV de Arborea (polittico di Ottana)


S’arbure israighinadu, simbulu de sos Arborea benit a èssere bandela de sos Sardos.

Bibliografia

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